IL FUTURO E’ ARTIGIANO: il lavoro non si cerca, si crea.

 

 

“L’artigianato in Italia oltre a rappresentare una grande risorsa, è anche una scelta di vita appagante ed è da valorizzare.”
E’ il messaggio fondamentale che emerge nell’interessantissima intervista di Gabriele Catania de LINKiesta a Stefano Miceli, docente di Economia e Gestione delle Imprese all’Università Ca’ Foscari, sul suo libro, FUTURO ARTIGIANO, edito dalla Marsilio, che ha riscosso un grandissimo interesse nel mondo delle imprese manufattiere italiane e non solo. Infatti, rompendo per la prima volta un tabù, l’ADI ha assegnato il prestigiosissimo premio Compasso d’Oro all’economista e autore del libro Stefano Miceli con la motivazione “per aver fornito ragioni economiche e pratiche per rivalutare l’artigianato industriale italiano in un’ottica non nostalgica ma proiettata verso il futuro”.
– Il lavoro artigiano ha una voce importante nella cultura e nell’economia italiana, Miceli propone di tornare a scommettere su di esso, rendendolo contemporaneo con moderne interpretazioni tecnologiche e aprendolo alla globalizzazione, l’Italia, in questo modo, conquisterebbe un formidabile strumento di crescita e innovazione. Il “saper fare” è la forza dell’intero manifatturiero italiano ed è uno dei settori vitali della nostra economia.
«Parliamo sempre di trasferimento tecnologico – dice Micelli – ma bisognerebbe parlare di osmosi. Osmosi tecnica e tecnologica. Cioè mescolare le abilità artigianali con le competenze industriali; le capacità dei tecnologi e dei manager con quelle, straordinarie, dei tecnici e degli artigiani».
Quella di Miceli potrebbe sembrare una provocazione nostalgica, quasi passatista. In realtà c’è una buona dose di pragmatismo, nella sua riflessione. Per tanti motivi. Ad esempio, per sfuggire alle logiche impersonali della produzione di massa. O perché manutenere è meglio che riciclare; riparare un oggetto che non funziona è spesso un gesto più ecologico che comprarne uno nuovo.
E poi il lavoro artigianale non restituisce dignità solo alle cose; anche alle persone.
Occorre riscoprire il “saper fare”, ben consapevoli però della globalizzazione e dei “nuovi saperi.” In un Paese come l’Italia, famoso per i suoi prodotti di qualità, e dove la disoccupazione giovanile è altissima, ma scarseggiano carpentieri, fornai, sarti e scalpellini, sembra una buona idea.

Miceli nel suo libro prova a ribaltare una visione ormai radicata. Noi siamo vittime di una cultura nozionistica dove solo la conoscenza formalizzata è rilevante, ed essa non ha a che fare né con la tradizione né con la manualità. Abbiamo abbracciato il presupposto in base al quale l’unica conoscenza economicamente rilevante è quella scientifica, di tipo generale-astratto.

Oggi, in Italia, si parla tanto di multinazionali tascabili. Ma in cosa consiste la ricchezza di queste medie imprese? Per esempio, il settore del lusso. Qui è fondamentale il passaggio dall’idea di moda a quella di patrimonio culturale, l’heritage, termine con cui le case di moda indicano tutto quello che ha a che fare con il contenuto culturale di un prodotto e con il suo retaggio simbolico. Oggi, se si entra in un negozio di Gucci si può vedere un video con degli artigiani al lavoro su una borsa: quella borsa vale migliaia di euro, e Gucci mostra come la si realizza. Stiamo parlando di uno dei principali marchi del Made in Italy e di un’azienda con un fatturato di tre miliardi di euro! Deve far riflettere che l’imprenditore francese François-Henri Pinault abbia costruito un’intera strategia sull’artigianalità italiana.

Però si tratta di lusso. E il lusso non è il classico settore industriale. In altri campi, ad esempio quello delle macchine utensili, la musica è ben diversa.
Eppure bisognerebbe vedere quanta artigianalità c’è ancora nella realizzazione delle macchine utensili, il grado di personalizzazione, il livello di “fatto su misura per te”.

Combinare artigianato e alta tecnologia, questa è l’idea vincente.
In Italia abbiamo seguito acriticamente l’idea che esiste una conoscenza astratta-scientifica che si traduceva automaticamente in valore economico. In realtà è molto più complicato di come si pensa. C’è molta intelligenza nel FARE, soprattutto quando i prodotti sono pensati per clienti con richieste specifiche o devono evolvere rapidamente nel tempo.
Perciò occorre rivalutare l’artigianato per poter essere più competitivi sui mercati globali.
Ripetiamo sempre che dobbiamo investire in ricerca, non considerando che nell’artigianato e nelle professioni manuali vi è molta ricerca sui materiali, sulle tecniche e sui modelli e la fruibilità. Considerando l’artigianato come una risorsa, si otterrebbe un’accelerazione notevole nell’innovazione. Per esempio combinando gli artigiani della meccanica o della moda o del vetro e abbinandoli a un ingegnere e a un esperto di comunicazioni.
Combinare, quindi, il sapere non formalizzato con quello formalizzato e accademico.
Bisogna far riscoprire agli italiani, anche ai più giovani, il lavoro manuale.
Se si riuscisse a riconciliare gli italiani con il lavoro manuale sarebbe un sollievo: separare il sapere manuale da quello accademico e scientifico è stato un errore madornale, ma una cosa non esclude l’altra: si può puntare sia sulle nuove tecnologie, sia sulla tradizione. Avere tante fabbrichette ormai serve a poco: molto più utile combinare le competenze artigianali di cui ancora disponiamo con quelle degli ingegneri, dei ricercatori, dei medici, degli esperti di comunicazione. Un cocktail così può generare l’inverosimile, a condizione che la nostra cultura riconosca il saper fare come un vero sapere.

Ecco un aneddoto rivelatore. Quando Ettore Sottsass, celebre designer italiano, è andato alla Nasa, e gli hanno fatto vedere le componenti delle capsule spaziali, lui, colpito, ha commentato: «Questo posto è pieno di artigiani». L’aneddoto è divertente perché fa capire come l’high tech che servì a mandare l’uomo sulla Luna fosse in realtà tutto “fatto su misura.” Noi crediamo sempre che sia la scienza l’unico modo per risolvere i problemi. Dietro a molta scienza e sperimentazione c’è invece una capacità di fare che magari facciamo difficoltà a formalizzare, ma che rappresenta una risorsa straordinaria per l’innovazione.
È paradossale, ma tutta la discussione sulla meritocrazia negli ultimi anni non ha aiutato la cultura del rischio. È paradossale perché oggi molti dei nostri migliori studenti, proprio in virtù del fatto che hanno ottimi curricula, si aspettano che qualcuno li assuma. Molti di loro si sono semplicemente adeguati a un percorso deciso da altri; lo studente rischia poco di suo. Oggi viviamo in una società che esige invece che l’imprenditore vada controcorrente, facendo cose diverse, scommettendo su quello che altri non fanno. E’ paradossale, da un lato coltiviamo una cultura della meritocrazia, e dall’altro ci aspettiamo che basti un buon curriculum scolastico per farcela. Un film come The Social Network ha forse cambiato un po’ la percezione. Colpisce, nel film, la frase del rettore di Harvard: «Qui i laureati pensano che sia meglio inventarsi un lavoro che trovarne uno».”-

Caterina Magliulo decor scout

 

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